_Il cubo bianco (capitolo 1)_
PRIMO ATTO
Il sipario si
alza e in pochi attimi il brusio in sala lascia il posto a un attento
silenzio carico di attese.
Il drappo rosso che sale, svela
lentamente la scena sul palco.
Lo sfondo è
nero. Un tappeto rosso a terra, un divano viola e un cubo
bianco.
Appoggiata al
divano una donna con i capelli sciolti e una lunga tunica
grigia, in una mano un libro e nell’altra un ombrello nero.
La donna
è la protagonista di questa rappresentazione surreale, il
cui titolo è: Il cubo bianco.
Quando il
sipario si solleva completamente, l’applauso del pubblico dà l’incipit
alla storia che di lì a poco si consumerà sul palco.
Una debole luce
illumina la scena dal basso. L’attrice sul palco alza il libro
innanzi a sé e verso il pubblico, poggia l’ombrello alla
destra del divano, fa un sospiro e si accomoda a sedere aprendo
il libro. Legge una frase:
–
“Il cuore dell’uomo è come gomma: pochissimo basta a gonfiarlo,
e moltissimo non riesce a farlo scoppiare. Se poco più che
nulla lo turba, ci vuole poco meno che tutto a spezzarlo”.
La
voce è forte, chiara e cristallina e l’attrice enfatizza ad arte alcune
parole per renderle maggiormente evidenti all’ascoltatore.
Alza
lo sguardo dal libro, quindi lo posa sul pubblico guardando tutti
e nessuno, assume un’espressione pensierosa e comincia una sorta di monologo amletico.
–
L’amore! – inizia così. – Ve lo dico io cos’è l’amore…– con tono
brutale e spezzato completa la frase:
– È una truffa! – e continua
– È un ladro, una trappola... È qualcosa che può distruggere, annientare…
Ci fa perdere la coscienza, ci leva tutto ciò
che abbiamo, ci spoglia…
Pronunciate
queste ultime parole l’attrice cambia prontamente posizione
e intonazione della voce, pone una mano di taglio all’altezza
delle sopracciglia, si sporge un po’ in avanti come per
vedere meglio tra il pubblico, quasi a cercare qualcosa, e aggiunge:
-Si, perchè l'amore riesce a metterci a nudo, privarci delle difese, renderci inermi…
–
Ecco… – torna al tono e alla precedente posizione riordinandosi una
ciocca di capelli – …cos’è l’amore – termina mestamente mentre
è già pronta a proseguire il suo discorso.
–
Io ho amato…– si siede, si avvicina l’ombrello e ci gioca ncastrandone
la punta nel tappeto e guardando distrattamente ora
verso il basso, ora dritto davanti a sé come presa completamente dai
suoi pensieri, dai ricordi.
–
Ho amato un uomo follemente. Ero accecata da lui. Ho trascorso
più della metà dei miei anni con lui, facendogli da satellite. Eh,
già! Gli orbitavo intorno… Mi sono annullata per lui,
presa com’ero a renderlo felice. Ma lui era felice? Lo è mai stato?
E chi lo sa! Ancora ora non l’ho capito! Sempre cupo, silenzioso,
spesso
strano… Gli giustificavo tutto. Ero capace di trovare
una scusa e una motivazione per tutto, anche per gli atteggiamenti più
assurdi. Oh… quante volte mi sono consumata la
voce parlandogli, cercavo di dialogare, di capire, quante discussioni e
liti assurde…Quante volte avrei dovuto dire “ora basta!”, chiudere
e archiviare la storia come impossibile. Niente, non
l’ho mai fatto. Ho preferito consumarmi, aspettare, pazientare, continuare
ad amare un uomo così per paura di perderlo. Per
me era come l’aria. Di cosa posso ancora colpevolizzarmi? Sì,
perché mi sono sempre data la colpa anche di cose inesistenti pur
di giustificare le sue azioni e i suoi comportamenti. Di cosa posso
colpevolizzarmi ancora? Di averlo amato ciecamente?
Di
essere stata più folle di lui a seguire i suoi mille sragionamenti? Ma
dopo anni e anni, quando a un tratto tutto è sembrato un
po’ più semplice, forse grazie alla maturità o soltanto alle esperienze,
o forse le sofferenze della vita mi avevano resa più forte,
obiettiva... all’improvviso ho visto come una luce che illuminava meglio
sia le cose presenti che quelle passate, facendomi terrorizzare
all’idea di poter soffrire ancora in futuro…
Sulla
scena compaiono altri due attori, uno con una torcia in mano
completamente vestito di nero e l’altro con un largo mantello rosso
lungo fino ai piedi, chiuso attorno al corpo come una
tunica, a nascondere tutto, anche le mani.
L’attrice
si siede a terra e si distende lateralmente poggiandosi al
divano, con il volto triste. L’attore con la torcia l’accende e dirige
il fascio di luce verso di lei che si porta una mano davanti agli
occhi come a ripararsi dalla luce.
–
Chi sei? – chiede e si alza di scatto.
–
No, non me lo dire! Io so chi sei! Io ti odio! – urla. –
Tu
sei la luce che mi ha tolto la quiete! Stavo bene… cioè, credevo
di star bene… nel mio buio mi trovavo bene, coccolata, al
sicuro, tranquilla. Soffrivo ma non me ne avvedevo completamente. Mi appagavo
con le briciole di un amore che
per me era tutto… Piangevo a volte, anzi spesso. Ma poi mi
bastava un sorriso, un garbo a riportarmi sulla mia isola di
beatitudine.
Poi
voltandosi di spalle domanda:
– Ma perché dico questo a
te?
A questo punto l’attore con la torcia in mano sale sul cubo bianco
e la illumina dall’alto.
L’altro
attore, rimasto in piedi dietro al divano, si siede a terra al
lato destro della scena, a un estremo del tappeto e si copre tutto
col mantello rosso chinando il capo sulle ginocchia.
L’attore
con la torcia comincia a parlare: – Lo sapevi che era un
amore sbagliato – dice, con voce acida e tagliente – tu lo sapevi!
L’attrice
indietreggia, si volta. – No, no è vero! Io lo amavo! Lo
amavo e basta.
–
Non ti ha mai fatto soffrire? – continua l’attore con la torcia con
fare indagatorio.
–
Sì, tanto... Troppo… – risponde l’attrice con voce sempre più
lenta e bassa. Poi, si gira verso l’attore suo interlocutore e verso
il pubblico e continua:
– Ho sofferto fin da subito – pronunciando la
frase come una confessione, tutta d’un fiato, improvvisamente.
–
Allora perché non te ne sei andata? Perché hai continuato?
L'attrice si prende la testa tra le mani, la scuote e non risponde.
Silenzio.
Poi,
con un filo di voce ammette: – Io non lo so. Mi sono sempre
giustificata dicendo che ero accecata dall’amore che provavo per
lui.
La
torcia viene spenta, l’attore scende dal cubo bianco e le si avvicina, la guarda, le gira
attorno, come a giudicarla, come a prendersi
gioco di lei.
Lei si siede a terra e, con le lacrime agli occhi,
ormai vinta dal dolore chiede:
– Perché non sei arrivato prima?
Perché sei arrivato solo adesso?
–
Io non sono arrivato solo adesso. Io arrivo quando vengo chiamato.
Aspetto che la coscienza cominci a far chiarezza e arrivo a
intensificarne la luce.
–
Eppure altre volte ho avuto momenti di triste lucidità in cui,
se fossi arrivato, avrei potuto porre rimedio prima e fare chiarezza.
–
Non eri pronta. Eri accecata dall’amore. Non avresti visto la
luce della coscienza. L’amore appartiene all’ignoto, al lato inspiegabile di
noi, alle passioni. La coscienza si fonda anche sulla ragione
–.
Mentre parla cammina sulla scena rivolgendo a tratti
lo sguardo verso l’attrice che rimane seduta a terra. Poi si gira,
riaccende la torcia indirizzando il fascio di luce sulla platea attenta,
scivolando su tutte le teste fino a ritornare sul palco al centro
della scena e, infine, sull’attrice che alzandosi raccoglie l’ombrello
e lo apre facendosi ombra.
L’attore
con la torcia ride sarcastico:
– Vedi? – dice – Continui a
difenderti dalla luce. Nonostante tu sia ormai consapevole di
ciò che hai fatto, di quanto hai sbagliato e sofferto, una parte
di te sarebbe ancora capace di rinnegare.
L’attrice
allontana l’ombrello poggiandolo ancora aperto sul tappeto
davanti a lei.
–
Ora dimmi – continua l’attore con la torcia – quando sei riuscita
a capire?
–
È stato come il bagliore improvviso di un lampo in una giornata
di sole. È successo tutto all’improvviso, senza senso, in un
momento sbagliato. Andava tutto liscio. Solo che…
–
Solo che? – domanda l’attore incalzandola a terminare la frase lasciata in sospeso.
Qualche
secondo di silenzio e l’attrice continua:
– È stato durante
un viaggio di lavoro. Non lavoravo da anni. Le varie difficoltà
della vita, scelte più o meno obbligate. Poi, un’opportunità da
prendere al volo. Sono dovuta andare all’estero per una
settimana. Ecco, è stato durante quella settimana… –.
Una pausa.
– Stare lontano da tutti, da tutto, dalla routine… Ho pensato
tanto. Ho avuto paura dei miei pensieri, dei ricordi. Non
so con precisione cosa ha fatto sì che ciò accadesse, ma è come
se si fosse aperto un vaso di Pandora. Non è più stato possibile richiuderlo.
A
questo punto Chiara, questo è il nome dell’attrice, aveva sempre
una strana sensazione, come una forte vertigine. Qualcosa che
la prendeva dalla realtà e la catapultava in un’altra dimensione.
Proprio
e sempre in quel punto era come se si staccasse da
se stessa ed entrasse completamente nei panni della protagonista del
dramma.
Chiara
l’aveva soprannominata Ottavia, in realtà in questo dramma
la protagonista non aveva un nome, non era importante ai
fini dell’intera sceneggiatura, ma Chiara era solita indossare i
panni del personaggio che inscenava e per farlo aveva bisogno anche
di conoscerne il nome, di “nominarlo” come diceva lei.
Ottavia era la sua amica, la sua carissima amica…
Non
vi era spazio ai pensieri personali durante la recitazione e
se ciò avveniva spesso il risultato era diverso da ciò che ci si poteva aspettare.
Chiara lo aveva capito presto, faceva propria la parte
e in scena i suoi pensieri erano esclusivamente quelli del personaggio.
Adesso
i suoi pensieri erano quelli di Ottavia che, ogni volta che
parlava con lei e ricordava, spiegava, o cercava di farlo, cambiava
espressione. Il non poter reagire contro quella presa di coscienza l’aveva
messa profondamente in crisi.
Ma ora Chiara era
concentrata e pensava a Ottavia solo per interpretare la parte al
meglio.
La
sua voce diviene commossa e, una volta terminata la frase, ripete
le ultime parole con trascinata sofferenza modificando il
copione, nel quale non è previsto che quelle parole vengano ripetute.
La
testa leggermente flessa verso destra, lo sguardo perso e queste
parole lasciate sole, staccate dalle altre, libere di espandersi e
di echeggiare per l’intera sala.
– Non è più stato possibile richiuderlo…
Lunga
pausa. Lungo silenzio.
Il
cuore di Chiara batteva forte. Altrove batteva forte il cuore di
Ottavia. In platea battevano forte tanti altri cuori.
Gli
attori erano molto bravi, la scena rifletteva e interpretava l’aspetto
onirico del dialogo. Tutto era molto surreale, enfatizzato da
semplici giochi di luce ad effetto e dai tempi ben precisi di
silenzio e dialogo. L’insieme era decisamente suggestivo.
In
prima fila Rocco si annoiava un pò. Ammirava la moglie, per
lui la sua bravura era motivo di vanto, non sentiva la sua passione
per il teatro come propria.
Era
stato sempre uno spettatore un po’ superficiale, soprattutto quando
le sceneggiature erano come quella che stava recitando ora
Chiara, un po’ “pesanti”, “psicologiche” come diceva lui.
Questa
in modo particolare non gli piaceva anche se l’aveva scritta
suo cugino Paolo e, per quanto si sforzasse, non riusciva a
capire come fosse venuto in testa a Paolo di scrivere una cosa simile invece di uscire a
divertirsi.
Comunque,
Rocco era lì, comodamente seduto sulla sua poltroncina
rossa a guardare l’esibizione di Chiara. E l’adorava.
Il
silenzio sul palco viene interrotto.
L’attrice si dirige verso l’attore
con la torcia implorando:
– Spegni la luce, ti prego… lascia
che ritorni a credere nell’amore, lascia che soffra senza
accorgermene. Lascia che tutto torni com’era! Che io non
lotti più con me stessa notte e giorno per capire come ho fatto
a reggere fino ad ora! Prima… prima soffrivo meno di adesso.
A
questo punto l’altro attore si alza da terra e nell’alzarsi allarga il
mantello rosso con le braccia, si avvicina all’attrice abbracciandola richiudendo,
poi, il mantello anche intorno a lei, completamente.
–
Sì…– dice infine con voce leggera, e prosegue – tu hai creduto tanto
nell’amore. Hai lottato per il tuo amore. Hai fatto tutto
quello che potevi, forse troppo. Tante volte sono stato con te
a darti coraggio, a urlarti di non mollare.
Chiara
gli poggia il capo su una spalla e dice: – Allora sei stato tu
a spingermi sempre ad andare avanti?
–
Sì – risponde l’attore.
Silenzio.
Chiara
si stacca da lui senza uscire dall’abbraccio rosso del suo
mantello.
–
Io… io, non so se amarti o odiarti!
–
Forse non devi fare né l’una nell’altra cosa. Accetta, come hai
accettato d’amare.
–
Perché tanta sofferenza? Lasciami! – e staccandosi da lui si pone
al centro della scena; da qui si volta prima verso l’attore con
la torcia e urla:
– Tu, perché non mi hai fatto luce prima?
–.
Poi, si dirige verso l’attore col mantello rosso, lo strattona e grida: –Tu, perché mi hai
incoraggiata ad andare avanti?
I
due attori rimangono fermi, immobili come statue, lei si volta
verso la platea e cammina verso il cubo bianco, ci sale in piedi,
sta per saltare.
Il sipario si abbassa. Scroscio di applausi.
Dietro
le quinte i tre attori si rilassano, bevono, si schiariscono la
voce, fanno commenti su come sta andando e cominciano a
respirare profondamente pronti a ripartire.
Chiara
prima di rientrare in scena sbircia Rocco. Sta sbadigliando.
Lo
accarezza con lo sguardo sa che è lì solo perché sul palco
c’è lei.
Intanto
in platea le persone hanno dato vita a un chiacchiericcio musicale
tutt’altro che sgradevole.
Gli
addetti alla scenografia stanno smontando la semplice scena
di poco prima e ne stanno rimontando un’altra.
Chiara
e il gruppo dei suoi amici teatranti Luigi e Giorgio che,
insieme ad altri nove, formano la compagnia teatrale “Gli istrionici”,
sono soddisfatti, battono il cinque e si complimentano a
vicenda.
L’applauso
non ha lasciato spazio al dubbio. La rappresentazione è
piaciuta!
Tra
una decina di minuti sarebbe andato in scena il secondo atto.
Chiara, un po’ stanca, vola in camerino e digitando velocemente un
numero sul cellulare chiama la baby sitter per assicurarsi che
tutto vada bene.
Adesso è pronta a tornare in scena.
Si guarda un attimo allo specchio più
per abitudine che per altro.
pina ianiro (primo capitolo del romanzo "Il cubo bianco" edito da Perrone Lab, 2010)
pina ianiro (primo capitolo del romanzo "Il cubo bianco" edito da Perrone Lab, 2010)
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