_Farfalle al contropesto (ma non è una ricetta)_

Farfalle al contropesto. Ingredienti: pasta tipo farfalle, pomodorini, olio extravergine d’oliva, aglio,  pesto e tanta allegria, ingrediente fondamentale per poter avere a cena amici.
Nella padella l’olio già sfrigola e si avverte un leggero profumo d’aglio. E’ il momento dei pomodorini tagliati a rondelle, belli, rossi e maturi. Pregusto il loro sapore, le chiacchiere e le risate con gli amici.
Scolo la pasta e la passo nella padella. Dove ho messo il pesto? Eccolo sotto al canovaccio contornato da buccia d’aglio. Apro la vaschetta. Che confezione meticolosa per tre etti scarsi di pesto! Venduto a peso d’oro nonostante questa sia la sua patria. Pensavo che qui costasse meno, come a Napoli la pizza. Macché … In un batter d’occhio scompare dalla vaschetta e colora la pasta di verde prima di diventare un tutt’uno di bontà.
Di là aspettano gli amici, affamati di ricordi, spensieratezza e divertimento. Li sorprenderò con un piatto semplice come l’amicizia, saporito come la vita e colorato come l’allegria.
Le porzioni sono presto fatte. Che bella tavolata. Dieci teste con un’età media pari a trenta. Chi più, chi meno. Un’età in cui ci si comincia stranamente e misteriosamente a sentire “grandi”.  Dicono che l’età difficile sia l’adolescenza. Io dico che c’è una seconda età difficile: il passaggio dai venti ai trent' anni. Ci si vede ancora ragazzini, ci si sente ancora spensierati; eppure i capelli bianchi cominciano a vedersi tra gli altri e le responsabilità cominciano a premere. C’è chi è sposato, chi ha figli. C’è chi lavora con ritmi da infarto e chi ancora non ha trovato la sua strada e passa i giorni frustrato da una società che non gli dà un senso. E’ un’età in cui ci si rende conto che è finita l’epoca delle preoccupazioni date ai genitori, e si approssima il momento di prendersi cura di loro. E’ finita l’epoca delle ribellioni e dell’idealismo. Non dimenticata, non repressa. Si conserva ancora dentro e la si nutre nel profondo. E’ solo l’apparenza, la facciata che ha subito una metamorfosi che ancora ti sforzi di ricordare quando è avvenuta e ancora non accetti del tutto. Tutto assume una patina di meditata razionalità.
Senza escludere le eccezioni, conosco trentenni eterni bambinoni privi di qualsiasi problema, superficiali quanto basta per vivere come eterni diciottenni. I famosi estremi della media. Curva gaussiana delle personalità. E’ anomalo pensarla in questi termini mi sento invischiata di mediocrità televisiva e di buona parte delle riviste che ingombrano le edicole. Statistiche, statistiche... Le opinioni medie, la famiglia media, l’attrice più conosciuta … E’ tutto raffigurato da medie e percentuali. Questo è il progresso, la nuova poesia.
E’ un mio vizio osservare le persone, il loro essere,  il loro agire,  il loro pensare, il loro parlare, sparlare o, semplicemente, dire. Sono attratta dalle persone e dall’atmosfera che riescono a crearsi intorno. Le osservo, le scruto. Ascolto attentamente quello che non dicono. A volte le imito. A volte mi impongo di non comportarmi come loro. Imparo sfogliando le pagine del loro sapere. Cammino lungo le loro vite. Cresco nutrendomi delle loro esperienze. Mio fratello mi ricorda che spesso i miei sono giudizi di valore e che è tutto soggettivo. Ma certo, lo so.
Sono consapevole di vedere e filtrare la realtà attraverso due spesse lenti: quelle dovute alla mia ipermetropia e quelle del mio mondo. “Ovattato” a detta di mio fratello; fresco, genuino e felice, dico io. E’ per questo che rimango ancora così delusa davanti alla disonestà, alla freddezza, all’ indifferenza e alla cattiveria. Sono cose con le quali non riesco ancora a convivere né a giungere a compromessi. Fuggo. Provo a resistere per un po’, poi comincio a stare male. L’unica soluzione è la fuga.
Fuggire non è indice di maturità. Ma chi ha detto che voglio essere matura o, ancor più, considerata tale?
Mentre mi faccio questa domanda vado verso la cucina con i piatti ben svuotati.
Le farfalle hanno lasciato tutti a bocca semichiusa. Non si può dire che ci sia stato silenzio assoluto. Mario ha fatto si che la stanza si riempisse di risate. Come al suo solito è riuscito a far ridere a crepapelle pure Michela. Meno male… Perché, in effetti, da ridere non c’è molto. L’undici settembre ci ha lasciato sconfitti del tutto. Sono passati poco più di due mesi. L’America ha risposto, come ci si aspettava … contro ogni utopia è guerra ancora. Guerra, con tutto il disgusto che questa orrenda parola porta con se.
Quel pomeriggio dell’undici settembre mi rimarrà stampato addosso per sempre. Lavavo i piatti e avevo la televisione accesa alle spalle, più per compagnia che per interesse. Improvvisamente l’“edizione straordinaria” del tg. Le prime notizie colpirono le mie orecchie riportando con estremo ritardo le informazioni al cervello che in stato di shock le rifiutava. Corsi a colpire l’altro senso ma, anche la vista venne respinta dalla mente. Realtà. Finzione. Finzione, realtà, finzione, finzione, realtà, realtà… Realtà, realtà, realtà… il cuore batteva impazzito e la disperazione mi contorse il viso. Immagini violente. L’anima mi faceva male, gli occhi mi bruciavano di lacrime che caddero irrimediabilmente, copiosamente mentre una torre implodeva sgretolandosi dentro se stessa. Tomba e cimitero immediato e ingiusto di anime innocenti la cui unica colpa era stata recarsi al lavoro, come ogni giorno. «Ciao cara, ci vediamo stasera. Dai un bacio a Robbie quando si sveglia»…

Michela era partita all’alba di quella mattina per New York. Aveva deciso di partire dopo mille spiegazioni ai parenti, agli amici e al fidanzato. Voleva lavorare lì. Qui si sentiva impossibilitata a crescere professionalmente. In lei rimaneva intatto il mito dell’America dove si fa fortuna, dove se si è in gamba arrivi in alto. Partì. Lo sapevamo tutti noi e in quei minuti vivemmo momenti terribili, pensando inevitabilmente a lei su quell’aereo. Le notizie erano vaghe. Le telefonate intrecciate e drammatiche. Eravamo tutti doppiamente, triplamente, completamente spaventati, increduli ed esterrefatti e dovevamo saper qualcosa. Numeri di telefono, ambasciate, telefonini irraggiungibili… Anche l’altra torre andava giù e la gente scappava con lo sguardo terrificato testimoni sgomentati dall’idea delle tenebre. Le tenebre dell’orrore macabro che si consuma feroce tra travi, pareti e intere parti di edificio, frammenti d’aereo che lentamente ed inesorabilmente vanno giù decidendo in un attimo il destino di genitori, figli, mogli, fidanzate, mariti e fidanzati, giovani e anziani, bianchi, neri, nonni e nonne, mamme, padri, Alfred, John, Peter, Mary…
In questo vuoto che si apriva dentro, finalmente una notizia di Michela, l’aereo sul quale viaggiava era stato dirottato in un aeroporto in Canada dato che su New York erano stati interrotti tutti i voli e cancellati tutti gli atterraggi. Lei stava bene e non sapeva quando sarebbe potuta tornare né quando sarebbe riuscita nuovamente a mettersi in contatto con la famiglia. Michela pensa ancora che sarebbe potuta essere sull’aereo maledetto. Michela trema ancora al pensiero che non la libera più.

Ho preparato delle polpette al forno e un’insalatona. Mi piace offrire anche degli “sfizietti” così metto delle olive verdi e nere in un piatto, dei crostini con i sottaceto, dei minirustici preparati da me e le melanzane sott’olio di nonna Pina. Questo è l’ultimo barattolino, dopo di che non sentirò mai più questo profumo inconfondibile che mi stuzzica le papille gustative e mi fa produrre acquolina a più non posso. Se ne è andata così nonna Pina, proprio alla vigilia del mio trentesimo compleanno, lasciandoci ancora per un po’ il suo gusto della vita condito con l’origano, l’aglio e il peperoncino e protetto da olio d’oliva rilucente come l’oro. Proprio come se ci avesse voluto far abituare all’idea, prima di andarsene ci ha lasciato dei barattoli delle sue strepitose melanzane, dei soldi e le sue pillole di anziana saggezza. «Che la Madonna ti accompagni». Fu l’ultima cosa che mi disse nonna prima di lasciarci senza un preavviso, senza un segnale. Stava bene. Certo, qualche acciacco dovuto all’età ma era vivace, autonoma, pimpante. Intelligentissima per quanto non sapesse leggere e scrivere «ma non lo fate capire ai vostri fidanzati» intimava a noi nipoti. Tempi duri quelli in cui visse la sua infanzia e giovinezza. I soldi non bastavano per una grande famiglia e i genitori decidevano chi mandare a scuola preferendo i figli maschi. Chissà che sofferenza per un animo così curioso e desideroso di sapere come quello di nonna. Allora le scelte dei genitori non erano discutibili. Appena imparai un po’ meglio a leggere e scrivere mi proposi come sua insegnante ma il tempo insieme era sempre insufficiente affinché la sua attenzione si potesse dedicare completamente all’alfabeto. Nonostante tutto se l’è sempre cavata. Ha superato i tempi di guerra con cinque figli ai quali non è mai mancato nulla, soprattutto l’affetto. Ed è arrivata fino al terzo millennio confondendosi tra la gioventù col suo spirito allegro e la risata sempre pronta. E’ stata anche lei spettatrice della distruzione terroristica dell’undici settembre e so che avrà pensato alla cattiveria del mondo. Se ne è andata senza far rumore, senza disturbare colpita da un infarto che le ha spezzato il cuore poco prima dell’entrata in vigore dell’euro, ennesimo attacco alla sua veloce capacità di adattamento, ennesimo tentativo di emarginazione degli anziani dalle cose del mondo. Ma lei se la sarebbe cavata comunque e come lei tutti gli anziani che lasciamo, spesso, invecchiare con disattenzione. Avevo preso casa da poco, sapevo che le sarebbe piaciuta e non vedevo l’ora di fargliela vedere. L’ora non è arrivata e il suo viso entusiasta è solo nella mia fantasia. «Che la Madonna ti accompagni» in trenta anni che la conosco non mi aveva mai salutata in questo modo. E’ un saluto eterno che sa di infinito e che sento costantemente in me.
Matteo entra in cucina e mi prende di sorpresa solleticandomi in vita. Faccio un salto.
Concludo bruscamente i miei pensieri così dolci. Grazie nonna sei in me con la tua vitalità. Grazie nonni più preziosi di qualsiasi libro per tutto ciò che mi avete insegnato. Matteo continua a farmi il solletico. Devo difendermi. Prendo un coperchio come scudo e lo sfido con un cucchiaio di legno. Lui si arma a sua volta con una forchetta di legno e la lotta comincia. Mentre noi duelliamo con spade scintillanti nell’immaginario, si sentono le voci degli altri che improvvisano un coretto: “certe notti”. Che stonati… La lotta va avanti ritmata dall’insolito sottofondo di vocine e vocione. E’ un divertimento indescrivibile godere degli attimi che ti regala la vita. Inaspettati. Come inaspettata è questa lotta in cucina. Arriva Roberta che si ferma interrogativa e divertita sulla porta. «Fate, fate pure. Chi vince?» Oramai siamo troppo presi per poter rispondere, a malapena l’abbiamo guardata. «Giovanni, ce l’hai carica la videocamera?» grida, poi, Roberta. Giovanni accorre incuriosito dalla domanda e, ovviamente, lo seguono tutti. Abbiamo anche il pubblico. E’ una lotta all’ultimo sangue. Ci viene da ridere, mentre ormai siamo diventati anche i momentanei  protagonisti di un cortometraggio 8mm. Il pubblico ha decretato la mia vittoria dopo che Matteo accaldato ha osato dire «basta, ho sete alt al gioco! O “alto gioco”, come dicevamo da piccoli». Torniamo a sederci a tavola per dare fondo alle altre squisitezze. E’ proprio vero in compagnia degli amici è tutto più buono. Giovanni, con mezza polpettina in bocca e mezza infilzata sulla forchetta comincia, non so perché, a parlare serio. Si era detto che avremmo dovuto fare solo bambinate e soprattutto che nessuno avrebbe dovuto affrontare argomenti seri o problematiche sociali. Giovanni sta facendo considerazioni sugli OGM, sulla globalizzazione ed è inevitabile non pensare al G8 e alla contromanifestazione alla quale una parte di noi ha partecipato. Altra ferita aperta. Non ha torto quando dice che la gente comune non ha voce in capitolo in merito alle decisioni di chi ci governa, non posso dargli torto quando dice che nessuno si è sognato di chiedere il nostro parere. Interviene Sara, da sempre ultramoderata, dice che se la mette su questo piano dovrebbe considerare che anche lui decide per la globalizzazione, per gli OGM e per il resto nel momento stesso in cui entra in un Mc Donald o quando compra un paio di Nike. Arriva il logico commento dei “luoghi comuni” conto fino a tre: uno, due e tre «sono luoghi comuni», dice Giovanni. E’ la fine! Non si troverà mai la soluzione a queste questioni, è inutile discuterne qui, ora. Forse è inutile discuterne sempre, perché il mondo ruota attorno agli interessi, ai soldi e noi siamo i presunti attori, in realtà impotenti spettatori. Possiamo essere anche in tanti a pensarla diversamente. Possiamo essere anche la maggioranza, se queste idee non possono curare gli interessi di chi decide saremo sempre una misera minoranza senza voce. Del resto a che è servito scendere in piazza qui a Genova? Il risultato è stato il sangue. «Insomma, basta. Ci siamo andati a manifestare. Cosa è cambiato? Cosa abbiamo risolto? Chi ci ha ascoltato? Alla fine siamo stati anche tacciati di vandalismo, facendo di tutta l’erba un fascio. Confondendoci, per semplificare le cose, con i black block, quelli che cercano lo scontro, quelli che non hanno niente di meglio da fare  se non brutale coreografia di piazza. Devo andare oltre? Perché di opinioni, giudizi e pregiudizi ne abbiamo sentiti tanti, se non sbaglio. Come sempre oltre il danno anche la beffa di dover subire ghettizzazioni improprie. Almeno per quanto mi riguarda, ma credo anche per alcuni di voi che c’erano. Cosa ci siamo andati a fare? Ve lo ricordate ancora? Mi sembra che riescono a confondere bene le idee di chi ancora ce l’ha. Di chi ancora ha le sue». Diciotto occhi mi fissano. Me ne sono accorta solo ora. Arrossisco. «Scusate, ragazzi» dico, cercando di cancellare dalle loro teste lo sfogo non indirizzato a loro e sinceramente non so a chi. La realtà è che spesso il mio idealismo prende ancora il sopravvento sulla razionalità. Sogno ancora un mondo in cui si possa esprimere un’opinione che venga ascoltata, sogno ancora un mondo senza interessi, pregiudizi, lotte, sangue…
Il sangue rosso e cupo con attorno tanto nero. La tristezza della guerra, dell’odio dell’ingiustizia. Delle ferite… quelle dell’anima che non guarisce. Il sangue di chi muore per un ideale, per l’utopia di un mondo migliore. Il sangue di un giovane ribelle fra tanti e fra quanti più pacatamente compongono un fiume che scorre con un’idea comune. Il sangue di un giovane che maledettamente un pomeriggio d’estate viene prescelto tra l’eccitazione generale da una pallottola impazzita. Lì a terra sangue e la fine di tutte le idee di Carlo. Chi ha ragione, chi ha torto. Per giorni solo tanto bla bla bla. Poi, resta solo quella terribile macchia di sangue sull’asfalto infuocato dal sole, che non potrà più essere pulita dal cuore di chi ricorderà per sempre. Che ricordo brutto. Me ne tornai a casa sconfitta per sempre. Non fu la paura a farmi abbandonare il campo ma la certezza della inutilità di tutta la manifestazione, usata come propaganda della presunta violenza dei suoi partecipanti in cerca solo dello scontro. Povero Carlo ignaramente strumentalizzato e morto. Povero poliziotto ignaramente strumentalizzato e artefice involontario di un assassinio. Poveri ideali strumentalizzati. Gli ideali dei manifestanti e gli ideali dei poliziotti presi e calpestati brutalmente e senza remore. Ma questo non è un film è la vita ed è assurdo che si debba arrivare a custodire certi ricordi.

Francesca pone fine alla discussione e ai pensieri aprendo il capitolo dei “ti ricordi”. Ovviamente si parte dalle mie fantozzianità, ne ho condivise molte con loro soprattutto durante i viaggi. Viene fuori di quando mi persi a Praga. Della maschera caduta a Venezia in un canale schivando per un soffio la testa di un gondoliere che stavo guardando con curiosità da un ponticello. Ma quello che più piace ricordare è l’avventura della storta a Oslo… Era sera, stavamo passeggiando, da poco usciti da un locale dove avevamo mangiato gamberetti e salmone e bevuto birra. Ne avevo bevuta un po’troppa. Insomma, ero un po’ su di giri. Non brilla del tutto, ma molto allegra. Gli altri, tra cui Francesca divertiti dal mio insolito stato, mi assecondavano in tutte le cose che dicevo e facevo. «Chi mi vuole sfidare alla corsa? Vi avverto, sono velocissima» dissi a un tratto poco lucida. Paolo, Giovanni e Valentina accettarono divertiti l’invito, gli altri rimasero a guardare. Così, correndo non vidi che il marciapiede aveva un dislivello e presi una storta al piede destro. Il tutto dopo un incontro ravvicinato del pessimo tipo col suolo norvegese che seppure dovessi scordare io mi ricorderebbero sempre i miei amici. Un dolore lancinante. Non riuscivo a mettermi in piedi. Paolo Giovanni e Valentina furono i primi a soccorrermi. Il nostro alberghetto non era sufficientemente vicino da potermi portare in braccio, neanche alternandosi. Era tardi. Non sapevamo, anzi sapevano cosa fare. Varie proposte che sentivo dal basso finchè fu proprio Francesca ad avere l’idea vincente. Aveva notato nel pomeriggio un supermercato molto grande lì vicino che aveva i carrelli. La sua idea perversa consisteva nel portarmi via infilata nel carrello. Io non potetti oppormi perché un po’ per il dolore e un po’ per la birra non capivo niente. «Si, ma come facciamo a prendere il carrello?» aveva obiettato qualcuno. Francesca sembrava sicura del fatto suo si fece accompagnare da Paolo. Camminarono fino in fondo alla strada, poi, scomparvero a destra. Tornarono dopo una ventina di minuti trionfanti. Michi che studiava medicina si era già assicurato che la mia caviglia non fosse rotta. «Come avete fatto?» chiese qualcuno. «Poi, ti spiego» dissero quasi in coro. Mani amiche e braccia forti mi sollevarono mettendomi nel carrello. Così in quello strano mezzo scortata da due dame e tre cavalieri arrivai in albergo.
«Ma proprio a Oslo ti dovevi slogare la caviglia?» ride Francesca che non ci ha più raccontato come fecero a recuperare un carrello alle undici passate di notte a Oslo. O almeno, non ci hanno raccontato la verità. Infatti non ci abbiamo mai creduto alla loro versione secondo la quale avrebbero aperto la saracinesca dell’androne del supermercato dov’erano i carrelli, li conosciamo troppo bene, non sarebbero mai stati capaci di fare una cosa simile. Non prenderebbero una caramella dal centrotavola senza aver prima chiesto il permesso, figuriamoci. «Senti, Francesca» le dico «ti sembra che sia arrivato il momento di soddisfare la nostra naturale curiosità e di dirci come cavolo faceste?» aggiungo sottolineando caricaturalmente ogni parola detta. «Uffà, ma allora sei di coccio. Te l’abbiamo detto» dice lei. «Non ci credo» insisto io. «Vabbè, al tuo quarantesimo compleanno se saremo sempre tutti insieme a festeggiarlo credi che continuerai ancora ad assillarmi con questa domanda?» dice mentre incastra un filo di melanzana sott’olio nella forchetta. «Guarda che sei stata tu a ricordarmi la cosa» le dico scherzando. «Ma credi che ci possa essere qualcun altro al mondo così fortunato da avere degli amici come noi che forzano, addirittura la saracinesca di un supermercato per aiutare la loro amica in difficoltà?» dice sorridendo. No, non credo. Sono davvero fortunata ad avere degli amici genuini, frizzanti e innamorati della vita. Amici che a trenta anni ti fanno sentire ancora diciottenne. Amici che ti ricordano l’importanza di sognare e credere ancora alle favole, anche a quelle che ci raccontiamo noi fingendo di crederci.

http://www.youtube.com/watch?v=uXZjL3BYqOY&feature=related


 pina ianiro (racconto finalista del Premio Letterario Giovane Holden IV ed. pubblicato nell'omonima antologia, 2010)

Commenti

Post popolari in questo blog

_Ultimo brindisi (poesia di: Anna Achmatova, 1934)_

_Mimosa (finchè non sono stata donna)_

_300 posti profilo professionale Istruttore Polizia Municipale... cronaca di un ordinario giorno da precario_