_E’ vero Pullicinè? _
Dal belvedere di
San Martino Napoli è bella e innocua, sembra una cartolina con i colori sempre
differenti a seconda dell’ora, della
stagione e del clima.
Lontano il
rumore del traffico. Lontane le strade e i vichi brulicanti di persone. Non
arriva il profumo del caffè, nemmeno quello della pizza e delle sfogliatelle.
Come il Vesuvio,
da quassù si domina lo spazio e il tempo di una città mai ferma ma sempre
uguale. Un’inquietante metamorfosi cristallizzata, una sorta di entropia in cui
tutto sembra uguale, ma niente ritorna al suo posto.
Chiedeva
indietro secoli di vita e si perdeva nei disegni di Chiara che camminava ignara
di tutto quello spazio che occupava la figura al suo fianco. Ignara di cosa ci
fosse in quegli occhi profondi che venivano da altri viaggi e che arrivavano
perenni a tuffarsi in quell’orizzonte, lo stesso che vedeva dalla finestra della
biblioteca di San Marcellino, quando si rintanava nel silenzio di carta delle
pagine e, finalmente, spettacolare ampiezza trovava in quelle e oltre i vetri.
Il mare davanti
Napoli, dentro Napoli e dentro di lui.
Mare ovunque,
tanto da riflettere la luce ma anche catturare la notte.
Chiara, con la
sua mano appiccicosa di zucchero filato e i pensieri scivolosi di burro,
lasciava scie di vaniglia come lampi che attraversavano i secoli, soprattutto
quando voltandosi gli diceva “papa’”…
Allora tutto cominciava a galleggiare in direzioni fantastiche di rinnovate
possibilità, almeno per qualche tempo minimo, esclusivamente per lei e per il
miracolo che riusciva a compiere, così simile a quello di San Gennaro. Allora,
sentiva sciogliersi il sangue e tutto diventava una serenata a Marechiaro in
una limpida serata di stelle, prima di tornare ad essere inghiottito dalle
profondità delle negate prospettive e della perenne precarietà, in quella
Napoli sotterranea che solo lui conosceva.
Per Chiara il
papà era l’eroe. Di più! Il supereroe! Di più! Il principe! Anzi, il re!
Papà era il più
bello, il suo rifugio, la roccia!
E lui lo capiva
dallo scintillio dei suoi occhi limpidi di bimba, nei suoi affacci su un mondo
tutto da scoprire e lo sentiva in quel raddoppio di sillaba così piccola e
precisa, ma così infinitamente carica di ogni aspettativa che lui non poteva
tradire: pa – pa.
Si rimescolava
il battito del suo cuore di quarantenne, assumendo lo stesso ritmo della parola
“papà” pronunciata dalla figlia. In
quei momenti aveva la sensazione che le sue storie, il suo sapere e qualsiasi
cosa, trovassero finalmente un senso, quando le raccontava alla sua piccola reginella.
Erano tre giorni
che mangiava pizza, ma questo Chiara non lo sapeva, come non sapeva che
nell’unica tasca sana dei jeans
custodiva una banconota da dieci euro con la quale doveva campare tutto il giorno.
Chiara vedeva
solo la luce del papà nella bellezza delle parole che sapeva mettere così bene
in fila per spiegarle le cose e narrarle le storie. Le piaceva guardare il
mondo attraverso le fantastiche lenti del padre.
E mentre
giocavano a riflettere le loro immagini sulla Synapsi, quando scendevano a
prendere la metro alla fermata Università, Chiara rideva delle smorfie
deformate del papà, che imitava a sua volta, ma non vedeva Pulcinella.
Sì, lui era
Pulcinella.
Si era guardato
un giorno allo specchio del bagno. L’immagine gli era sembrata quella di
Pulcinella.
L’ultimo
titanico sforzo per un lavoro, ovvero il lavoro per il quale aveva studiato e
continuava a studiare, era svanito tra
le macerie del nulla.
Non sapeva più
neppure di cosa colpevolizzarsi, forse di aver creduto di potercela fare con
impegno e sacrifici? Per aver rifiutato imbrogli e compromessi? Per non aver
voluto e potuto lasciare quella città? Perché era troppo preparato e nutriva un
sogno: lavorare dedicandosi alla sua passione, lo studio?
Lì, in quello
specchio, ammutolito da un fallimento non suo, consapevole della propria tristezza
e del fatto che non fosse l’unica maschera nel carnevale dell’ipocrisia dove l’onesto
è sempre il più debole, decise di indossarla davvero una maschera e prese in
prestito l’immagine che gli rimandava lo specchio: Pulcinella.
“Devo campare in qualche maniera. Devo
riuscire a tirare annanz, senza
abbandonare il mio sogno”.
Stanco, molto
stanco di ascoltare i consigli e i discorsi di certa gente che non vivendo la
sua vita non riusciva a capire le sue difficoltà.
Perlopiù,
persone che si fermavano solo alla superficie, ma capaci di colpire precisamente
nel punto più fragile senza alcun tatto. Persone riuscite a stare in paradiso “solo pè scagn’”, ma che nonostante
tutto, con una presunzione spaventosa si permettevano di giudicare. Insomma,
persone abituate da sempre a “ammisca’’e
cart’” con furbizia.
Stanco di subire
quel perenne carnevale sacrificale e burlesco, pieno di stelle filanti e coriandoli, di danze e
girotondi … Stanco degli inganni e dei carri allegorici, di quelle quotidiane
sfilate del falso benessere a ogni costo, di bisogni imposti, di volti lucidi e
lisci dai sorrisi perfetti, della furbizia, della disonestà, dei compromessi …
tutto a scapito dell’onestà e del merito che diventano zavorra derisibile,
decise di nascondersi.
“Allora se sono
costretto a essere una maschera e a fingere che tutto vada bene, io la maschera
la metto davvero”.
“Tiramm’ a campà” … Pulcinella …
Quella maschera
divenne sua, priva di scaltrezza se non l’averla adottata per sopravvivere. La
indossò arreso al fatto che ha più valore un Pulcinella di una persona che vuole
farcela con il proprio sapere trasformato in professione, in lavoro, in
qualcosa che faccia vivere.
Così
attraversava i quartieri di Napoli in una casaccona bianca, pantaloni lunghi e
larghi bianchi anch’essi, una corda spessa in vita a sblusare la casacca e a
reggere i pantaloni, un cappello floscio e la tipica maschera nera con il
nasone aquilino.
Con un
tamburello in mano, sfilava tra i vichi degli snodi turistici di Spaccanapoli,
tra San Gregorio Armeno e Santa Chiara, davanti alla Chiesa del Gesù, nella
Galleria Borghese, lungo il Rettifilo, in via Chiaia … contribuendo al folclore
e ricevendo in cambio spiccioli da turisti o passanti generosi.
Spesso, in
piazza Plebiscito lo chiamavano per degli scatti fotografici che avrebbero
riempito le pagine di un album di matrimonio.
Dietro la nera
maschera tutto era più semplice, anche contrabbandare la propria anima e, poi,
quando si piange nessuno se ne accorge.
Messi insieme il
numero di spiccioli ritenuti sufficienti per la giornata, considerando anche
quelli da mettere da parte per contribuire a mantenere Chiara e continuare a studiare,
allora si incamminava verso casa e verso la sua vera identità.
La funicolare
del ritorno diventava un momento di quiete e riflessione. Quasi sempre non
mancava di passare dalla terrazza del Vomero.
E Chiara è
lontana in quei momenti, quando Pulcinella ci si affaccia a guardare tutto, a
pensare a tutto, a sperare, gettando lacrime immaginarie, come fossero
monetine, in quella promessa immensa che è il mare.
Tre euro e
cinquanta una pizza Margherita, “Ma per
Pullicinella facimm’ tre eur’!” diceva ancora il proprietario della
pizzeria sotto casa.
La casa è vuota.
Chiara è dalla mamma.
Il cartone della
pizza sul tavolo, insieme ai libri.
L’unica luce
accesa viene dallo schermo del portatile.
L’unico rumore è
il ticchettio dei tasti.
L’unica a
testimoniare la sconfitta di una nazione, di una città e, purtroppo,
l’avvilimento di un uomo, è la maschera di Pulcinella.
L’unico
etichettato perdente, da una società cieca, non saprà mai di essere la
rivoluzione, l’unica forza che rimane in quella sconfinata passione che
continua, comunque, a spingere a farcela.
Farcela … forse
mai eppure, per questo nostro Pulcinella, bisogna continuare a provarci al
buio, lontano dai qualunquismi, dalle inutili chiacchiere, senza dirlo a
nessuno perché nessuno capirebbe.
E’
vero Pullicinè?
ALCUNE
NOTE PER IL LETTORE
A pochi passi dalla stazione Morghen
della Funicolare di Montesanto al Vomero è situato un meraviglioso affaccio
panoramico: il belvedere di San Martino, una delle vedute più
belle di Napoli, da cui si può ammirare
la città e l’intero golfo.
Marechiaro è un piccolo e pittoresco borgo affacciato sul mare.
Reginella è una delle canzoni napoletane più famose di
tutti i tempi interpretata, tra gli altri, da Roberto Murolo.
Synapsi, è una sinuosa scultura
in alluminio che rappresenta le sinapsi, ovvero, gli importantissimi
collegamenti che permettono la comunicazione tra le cellule del nostro tessuto
nervoso. L’opera è stata realizzata nel 2010, su progetto di Rashid, nei
laboratori di Rua Catalana a Napoli.
Tirare annanz :tirare avanti.
Tirare annanz :tirare avanti.
Stare in paradiso “solo pè scagn’”: stare in paradiso solo per sbaglio, vale
a dire per aver avuto fortuna.
Ammisca’’e
cart’:
mischiare le carte, vale a dire fare imbrogli.
Pina Ianiro (dall’antologia “Maschere” ed.
L’Erudita feb 2017)
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